Una festa importante

Mio nonno era romano e romanista. Antifascista. Metteva la brillantina sui capelli, teneva la camicia sbottonata sul petto villoso e sapeva disegnare con la mano ferma e leggera, da grande artista. Come tanti, era rimasto schiavo del lavoro di suo padre: l’avevano fatto entrare “a bottega” da piccolo, ne era uscito poco prima di morire.

Mio nonno era abruzzese, forte e gentile, aveva la schiena dritta e la mente limpida come il cielo di primavera. Da bambino, aveva abbandonato la famiglia per andare a studiare con lo “zio prete”. Poi, un passo alla volta, era diventato l’intellettuale da tutti conosciuto e stimato, l’autorità indiscussa, la sentenza di cassazione. Gentile con le persone umili, totalmente estraneo all’arroganza dei potenti.

Uno zio mi ha insegnato ad andare in bicicletta, uno mi ha fatto appassionare alla psicologia, un altro si confrontava con me, per ore, quando mi assillavano i dubbi esistenziali dell’adolescenza.

Ho conosciuto un professore di liceo che mi faceva venire voglia di conquistare il mondo, un sacerdote che mi ha aiutato nei momenti difficili, un Maestro che mi ha insegnato l’accademia.

Ho un amico che mi protegge dal cielo, uno che mi ricorda da dove vengo e uno che mi stima per ciò che sono e che faccio.

Oltre all’unico, vero e insostituibile padre, nella nostra vita, abbiamo la fortuna di incontrarne molti altri.

Rendiamo omaggio anche a loro.

Per fare un uomo, un solo padre non basta.

PS: Facebook mi ricorda che ho pubblicato questo post lo scorso anno, per celebrare San Giuseppe. Ho pensato che fosse il caso di riproporlo oggi. Il 70% dei morti per coronavirus sono maschi, molti di loro sono stati padri, ne sentiremo per sempre la mancanza.

Saranno per sempre con noi.

Una Visione del Paradiso

Un giorno, gli abitanti di un villaggio chiesero ad un Profeta di descrivere l’inferno. Dopo aver meditato a lungo, il Profeta disse: “dovete immaginare un immenso salone delle cerimonie…”

Un giorno, gli abitanti di un villaggio chiesero ad un Profeta di descrivere l’inferno. Dopo aver meditato a lungo, il Profeta disse: “dovete immaginare un immenso salone delle cerimonie. Al centro di questo salone c’è una tavola imbandita con ottimo cibo e pregiatissimi vini. Seduti a tavola ci sono tanti ospiti. Sono tutti affamati e sono tutti molto tristi, perché hanno posate lunghissime legate ai gomiti: possono infilzare il cibo, ma non riescono a portarlo alla bocca”.

Al che, il capo del villaggio domandò: “Ed il paradiso? Come è fatto il paradiso?”

Il Profeta rispose: “dovete immaginare il paradiso come se fosse un immenso salone delle cerimonie. Al centro di questo salone c’è una tavola imbandita con cibo succulento e pregiatissimi vini. Seduti a tavola ci sono tanti ospiti. Sono tutti affamati ed hanno posate lunghissime legate ai gomiti”.

Udite queste parole, la folla iniziò a rumoreggiare, ma solo il matto del villaggio ebbe il coraggio di prendere la parola ed obiettare: “Ma cosa state mai dicendo? Il Paradiso e l’Inferno sono dunque la stessa cosa?”

Allora il Profeta rispose: “Ti sbagli, amico mio. Le persone che siedono a tavola in Paradiso sono felici perché hanno capito che possono darsi da mangiare gli uni con gli altri”.

Alcuni autori attribuiscono la paternità di questo racconto a Buddha, altri a Mao, altri ancora ad Oliver Sacks. Non sono ancora riuscito a capire chi abbia ragione. Ad ogni modo, trovo che si tratti di una storia davvero interessante. Per alcuni aspetti, si tratta di una perfetta allegoria, per altri, ci porta completamente fuori strada.

 1. Ciò che mi piace di questa storia
Giustamente, l’inferno viene presentato come se fosse il regno dell’egoismo. Ciascuno pensa esclusivamente a sé, quindi, sono tutti poveri. I dannati sono eternamente insoddisfatti, costretti a desiderare in eterno un cibo che non potranno mai mettere sotto i denti. Questo è un paradosso davvero affascinante. L’errore in cui cadiamo tutti almeno una volta nella vita. Pensiamo di essere furbi quando ci “risparmiamo”, quando seguiamo il celebre consiglio dell’on. Razzi e “ci facciamo i fatti nostri”, quando evitiamo di condividere con gli altri ciò che possediamo di bello e di desiderabile. La verità è che a lungo andare l’egoismo riempirà la nostra dispensa, ma svuoterà la nostra anima.

Non a caso, Elias Canetti ha scritto che il misantropo digiuna per sei giorni ed il settimo mangia da solo.

D’altro canto, la storia che vi ho appena raccontato è una perfetta metafora della comunità. Come ricorda Roberto Esposito, il termine italiano “comunità” viene dalla unione delle parole latine cum e munus. Questo significa che ogni comunità è un dovere ed un dono reciproco. Possiamo conoscere la gioia del paradiso solo se viviamo in pace e reciproca comunione con i nostri fratelli.

 2. Ciò che non mi piace.
Non mi piace il fatto che questa descrizione del paradiso ruoti attorno all’idea di reciprocità. Voglio dire: è molto bello pensare che gli altri ci diano qualcosa in cambio del cibo che offriamo loro. Ma tutti sappiamo che le cose non stanno sempre così. Non a caso, Sartre ha scritto che “l’inferno sono gli altri” (Umberto Tozzi ha risposto che “gli altri siamo noi” ed Emis Killa ha concluso magistralmente che “l’inferno siamo noi”). Spesso, quando offriamo da mangiare, non riceviamo in cambio nulla – se non ingratitudine e frustrazione.

Ecco, io credo che se vogliamo davvero capire cosa è il paradiso, dobbiamo abbandonare del tutto questa idea di reciprocità. La gioia del donare è nel dono. Punto. Non c’è niente dopo, non c’è niente in cambio.

Ciò che l’altro mi offre non sono i suoi avanzi – il cibo a cui egli non può arrivare. Ciò che egli mi offre è la sua fame. Per quanto possa sembrare paradossale, l’altro mette a mia disposizione la sua indigenza: la drammatica urgenza di una pancia vuota che mi consente di uscire dal guscio del mio egoismo e di scoprirmi, nel dono, pienamente libero e pienamente uomo.

L’unica persona peggiore di un avaro è la persona che offre qualcosa con un secondo fine. Come quegli ambulanti che ti fermano per strada, ti mettono in mano un “regalo” e poi ti chiedono in cambio un’offerta.

3. Citazioni conclusive.
Non avendo mai fatto esperienza del paradiso, possiamo solo fare congetture. Come quella battuta che dice “il paradiso è un posto dove i cuochi sono francesi, gli amanti sono italiani, i poliziotti sono inglesi, i meccanici sono tedeschi. Ed è tutto organizzato dagli svizzeri. L’inferno è un posto dove i cuochi sono inglesi, gli amanti sono svizzeri, i meccanici sono francesi, i poliziotti sono tedeschi. Ed è tutto organizzato dagli italiani”.

Ad ogni modo, queste sono le mie citazioni preferite sul tema di oggi:

1) “La tristezza chiude le porte del paradiso, la preghiera le apre, la gioia le abbatte”
(antico proverbio ebraico)

2) “Preferisco il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia”
(Mark Twain)

3) “Che tu possa arrivare in paradiso mezz’ora prima che il diavolo sappia che sei morto” (antico proverbio irlandese).

Dovrebbe essere grato chi dà

0. La nuova casa
Da quando ho modificato la home del blog – festeggiando i risultati raggiunti negli ultimi sei mesi – molte persone mi hanno scritto per “ringraziarmi”, confidandomi che stanno attraversando un “periodo particolare” o “di difficoltà” e che la lettura del blog, in qualche modo, li sta aiutando a sorridere e riflettere. Tutto ciò ha provocato in me due sensazioni contrastanti, la prima è stata la gioia della comunicazione, dovuta al fatto che
questo esperimento sta riuscendo, alla consapevolezza che stiamo effettivamente condividendo qualcosa. La seconda è stata la sensazione che molti stanno attraversando un periodo difficile –  a prescindere da questo maledettissimo caldo – fatto di solitudine, e nostalgie.  Tutto ciò mi ha offerto lo spunto per la riflessione di questa settimana.
Premetto una cosa molto importante: pur avendo tratto ispirazione da alcuni messaggi, non mi riferisco in alcun modo alla specifica situazione in cui versano le persone che mi hanno scritto. Insomma, “ogni riferimento a fatti o persone […]” è puramente casuale.

Coltiva1

1. La prima soluzione.
La cura che io propongo a tutti coloro i quali sentono di non essere pienamente appagati e felici, la soluzione che suggerisco a tutti coloro i quali si svegliano e vanno a dormire con un macigno sul petto, insomma, la via di uscita che mi sento di indicare a tutti coloro i quali si sentono strangolare dalle nevrosi è di fare qualcosa per gli altri. Concretamente. Io vi invito a spostare il vostro baricentro interiore, la vostra attenzione. Dovete distogliere l’occhio della coscienza dalla condizione in cui vi trovate. Provate ad andare verso l’esterno. Esistono milioni di associazioni di volontariato che si occupano dei problemi più disparati: dall’accoglienza dei profughi alle cure per gli anziani, dalla tutela dell’ambiente, al ricovero degli animali abbandonati. Scegliete la vostra causa ed impegnatevi, seriamente, per qualcuno o qualcosa. Non è facile smettere di preoccuparsi per se stessi. Prima di tutto, perché non è naturale – il nostro istinto di conservazione ci suggerisce di prenderci cura, prima di tutto, della nostra vita – e poi, perché i mezzi di comunicazione ci raccontano ogni giorno che dobbiamo “prenderci cura di noi”, perché noi siamo tremendamente importanti.
“Come ti senti oggi? Di cosa avresti bisogno per essere veramente felice? Prendi ciò che vuoi, perché tu sei speciale, te lo meriti”. Per non parlare del divismo che dilaga sui reality, sui talent e sui social network (Il fatto che abbia una pagina pubblica e che utilizzi Facebook non significa che approvi tutto quello che leggo – ho una casa a Roma, ma questo non significa che sottoscriva tutto quello che fanno o dicono i miei concittadini). Il risultato di tutta questa spazzatura mediatica è che le persone si convincono davvero di essere speciali, magiche, uniche. Quindi, credono di dover quantomeno raggiungere – o peggio ancora di dover difendere – uno status esistenziale fatto di assoluta comodità e benessere. Come diretta conseguenza, le nevrosi di queste persone crescono sino a divorarne la vita: un principessa non può permettersi di uscire di casa con un capello fuori posto, una modella non può avere due etti di troppo sui fianchi, un super eroe non può guidare una utilitaria, una rock star non vive in una casa di periferia. Follie quotidiane che amplificano l’insoddisfazione e la solitudine, impedendoci di essere felici e di vivere.

2. La seconda soluzione.
Smettila di pensare a te stesso, al tuo fisico, al tuo status, al tuo conto in banca, al tuo lavoro… tutte queste cose non ti hanno dato la felicità sino ad oggi, perché dovrebbero aiutarti ad essere felice domani? Forse dovresti accettare l’idea che non sei in alcun modo speciale, non sei in alcun modo unico, non sei in alcun modo irripetibile e perfetto. Sei un essere umano. Speciale come lo sono tutti gli esseri umani, unico come lo sono tutti gli esseri umani, irripetibile quanto tutti gli altri ed imperfetto – esattamente come tutti gli altri.
Più cerchiamo di difendere la nostra immacolata perfezione, più perdiamo il contatto con la realtà, cadendo vittime di mille insoddisfazioni. Qualcuno ha scritto che l’avaro vive da povero per morire da ricco. Evitiamo questa trappola, perché, come ha ricordato più volte il Santo Padre, i sudari non hanno tasche. Un giorno il nostro viaggio terreno avrà fine, quel giorno malediremo il tempo che abbiamo buttato sforzandoci di essere più belli, più ricchi, più importanti. Di noi, resterà solo l’amore che abbiamo donato.

Se volete definitivamente rovinare la vita di una persona, regalatele qualcosa da difendere. Non conta che siano soldi, la stima degli altri, l’amore delle donne o potere decisionale: il possesso è una trappola.

Per essere veramente liberi e felici, abbiamo bisogno di muovere costantemente e consapevolmente verso un “punto di perdita”.

Come insegna un vecchio adagio zen: “dovrebbe essere grato chi dà”.

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