Un giorno, gli abitanti di un villaggio chiesero ad un Profeta di descrivere l’inferno. Dopo aver meditato a lungo, il Profeta disse: “dovete immaginare un immenso salone delle cerimonie. Al centro di questo salone c’è una tavola imbandita con ottimo cibo e pregiatissimi vini. Seduti a tavola ci sono tanti ospiti. Sono tutti affamati e sono tutti molto tristi, perché hanno posate lunghissime legate ai gomiti: possono infilzare il cibo, ma non riescono a portarlo alla bocca”.
Al che, il capo del villaggio domandò: “Ed il paradiso? Come è fatto il paradiso?”
Il Profeta rispose: “dovete immaginare il paradiso come se fosse un immenso salone delle cerimonie. Al centro di questo salone c’è una tavola imbandita con cibo succulento e pregiatissimi vini. Seduti a tavola ci sono tanti ospiti. Sono tutti affamati ed hanno posate lunghissime legate ai gomiti”.
Udite queste parole, la folla iniziò a rumoreggiare, ma solo il matto del villaggio ebbe il coraggio di prendere la parola ed obiettare: “Ma cosa state mai dicendo? Il Paradiso e l’Inferno sono dunque la stessa cosa?”
Allora il Profeta rispose: “Ti sbagli, amico mio. Le persone che siedono a tavola in Paradiso sono felici perché hanno capito che possono darsi da mangiare gli uni con gli altri”.
Alcuni autori attribuiscono la paternità di questo racconto a Buddha, altri a Mao, altri ancora ad Oliver Sacks. Non sono ancora riuscito a capire chi abbia ragione. Ad ogni modo, trovo che si tratti di una storia davvero interessante. Per alcuni aspetti, si tratta di una perfetta allegoria, per altri, ci porta completamente fuori strada.
1. Ciò che mi piace di questa storia
Giustamente, l’inferno viene presentato come se fosse il regno dell’egoismo. Ciascuno pensa esclusivamente a sé, quindi, sono tutti poveri. I dannati sono eternamente insoddisfatti, costretti a desiderare in eterno un cibo che non potranno mai mettere sotto i denti. Questo è un paradosso davvero affascinante. L’errore in cui cadiamo tutti almeno una volta nella vita. Pensiamo di essere furbi quando ci “risparmiamo”, quando seguiamo il celebre consiglio dell’on. Razzi e “ci facciamo i fatti nostri”, quando evitiamo di condividere con gli altri ciò che possediamo di bello e di desiderabile. La verità è che a lungo andare l’egoismo riempirà la nostra dispensa, ma svuoterà la nostra anima.
Non a caso, Elias Canetti ha scritto che il misantropo digiuna per sei giorni ed il settimo mangia da solo.
D’altro canto, la storia che vi ho appena raccontato è una perfetta metafora della comunità. Come ricorda Roberto Esposito, il termine italiano “comunità” viene dalla unione delle parole latine cum e munus. Questo significa che ogni comunità è un dovere ed un dono reciproco. Possiamo conoscere la gioia del paradiso solo se viviamo in pace e reciproca comunione con i nostri fratelli.
2. Ciò che non mi piace.
Non mi piace il fatto che questa descrizione del paradiso ruoti attorno all’idea di reciprocità. Voglio dire: è molto bello pensare che gli altri ci diano qualcosa in cambio del cibo che offriamo loro. Ma tutti sappiamo che le cose non stanno sempre così. Non a caso, Sartre ha scritto che “l’inferno sono gli altri” (Umberto Tozzi ha risposto che “gli altri siamo noi” ed Emis Killa ha concluso magistralmente che “l’inferno siamo noi”). Spesso, quando offriamo da mangiare, non riceviamo in cambio nulla – se non ingratitudine e frustrazione.
Ecco, io credo che se vogliamo davvero capire cosa è il paradiso, dobbiamo abbandonare del tutto questa idea di reciprocità. La gioia del donare è nel dono. Punto. Non c’è niente dopo, non c’è niente in cambio.
Ciò che l’altro mi offre non sono i suoi avanzi – il cibo a cui egli non può arrivare. Ciò che egli mi offre è la sua fame. Per quanto possa sembrare paradossale, l’altro mette a mia disposizione la sua indigenza: la drammatica urgenza di una pancia vuota che mi consente di uscire dal guscio del mio egoismo e di scoprirmi, nel dono, pienamente libero e pienamente uomo.
L’unica persona peggiore di un avaro è la persona che offre qualcosa con un secondo fine. Come quegli ambulanti che ti fermano per strada, ti mettono in mano un “regalo” e poi ti chiedono in cambio un’offerta.
3. Citazioni conclusive.
Non avendo mai fatto esperienza del paradiso, possiamo solo fare congetture. Come quella battuta che dice “il paradiso è un posto dove i cuochi sono francesi, gli amanti sono italiani, i poliziotti sono inglesi, i meccanici sono tedeschi. Ed è tutto organizzato dagli svizzeri. L’inferno è un posto dove i cuochi sono inglesi, gli amanti sono svizzeri, i meccanici sono francesi, i poliziotti sono tedeschi. Ed è tutto organizzato dagli italiani”.
Ad ogni modo, queste sono le mie citazioni preferite sul tema di oggi:
1) “La tristezza chiude le porte del paradiso, la preghiera le apre, la gioia le abbatte”
(antico proverbio ebraico)
2) “Preferisco il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia”
(Mark Twain)
3) “Che tu possa arrivare in paradiso mezz’ora prima che il diavolo sappia che sei morto” (antico proverbio irlandese).
L’ha ribloggato su Riflessi Etruschi.
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“Fai bene e vai in galera”: questo il detto che mi ha fatto venire in mente il tuo articolo. Mai aspettarsi qualcosa in cambio perche’ il bene non ha interessi e non e’ detto che possa, magari un giorno, essere reciproco. Per come la penso io sii dovrebbe fare sempre del bene perche’, prima o poi in un modo o nell’altro, la ruota gira per tutti..
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Ciao… concordo in pieno sul fatto che ciò che qualifica il gesto sia l’intenzione. Se tra uccidere e aiutare è più utile aiutare, anche i cattivi intelligenti lo fanno.
D’altra parte, gli inferni più tremendi a volte sono stati creati proprio da chi aveva buone intenzioni (o quanto meno lo asseriva).
Ciò che mi risulta triste, del concetto di paradiso e inferno… è la presunta eternità/ineluttabilità. E’ davvero possibile accumulare così tante colpe da meritare un castigo eterno?
D’altra parte, con un sistema morale di premi/punizioni meno forte di questo, non si sarebbero retti e non si reggerebbero tanti sistemi di potere del passato, del presente e sicuramente anche del futuro.
Buon WE
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Conoscevo la storiella fin da bambino. Nel corso degli anni l’ho sentita riproporre in molte occasioni, perché in effetti è una metafora davvero geniale…
Mi piace la tua analisi, ma non condivido la critica al punto 2. Se ho ben capito, ritieni che il concetto di reciprocità possa in qualche maniera “inquinare” la sincerità del dono. Concordo con te che la gioia del donare è nel dono. Ma questa è la nostra consolazione finché siamo su questa terra, dove aspettarci qualcosa in cambio dal prossimo è spesso utopia, vuoi per indigenza, vuoi per egoismo…
Invece, io credo che il nocciolo del racconto resti quello che alla fine di una vita virtuosa ci deve pur essere un “premio”, che è ciò che chiamiamo “Paradiso”. La novità sta nel fatto che il “premio” è il dono che si fa reciproco: alla gioia del dare si somma quella del ricevere.
E forse il “segreto” di questa parabola sta proprio qui: si tratta di capire che il Paradiso non è banalmente una regola di convivenza basata sul merito, o una sovrastruttura umana ideale capace di colmare una volta per tutte le nostre frustrazioni terrene. Sarebbe una visione – di nuovo – egoistica del Paradiso! Il Paradiso, invece, lo costruiamo con la nostra vita: è il tempo ed il luogo nel quale potremo liberamente esercitare la stessa virtù che abbiamo già “scelto” di esercitare in vita, con la differenza che, non esistendo più la povertà, ed avendo il nostro prossimo conosciuto anche lui la gioia del dare, godremo finalmente di quella reciprocità che abbiamo sempre desiderato.
In questo senso, fare un’esperienza di comunione sulla terra è come assaggiare un pezzetto di Paradiso, pur sapendo che in questa vita c’è chi ha da “mettere in comune” soltanto la propria indigenza. Che poi è ciò che affermi tu stesso in vari punti, con parole molto più belle ed efficaci delle mie.
Se al contrario nella vita saremo stati egoisti ed ingrati, ciò che sperimenteremo sarà la “reciproca” ingratitudine. Così, al pentimento per la nostra condotta personale, si unirà il rammarico per aver dato un cattivo esempio al nostro prossimo. E non basterà neppure essere nell’abbondanza, perché l’uomo che non si accontenta in vita, non sarà mai sazio nemmeno in Paradiso!
Chissà, forse sono stato tautologico e non ho aggiunto nulla alla tua analisi. Del resto la mia preparazione in filosofia è prossima allo zero… Però mi hai ricordato una bella storia di quando ero bambino, che continua a rivelarsi molto preziosa per la mia vita adulta. Grazie di questo “dono”! :-)
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