Perché Renzi NoN è Mai Stato Votato

Sabato mattina, ore 8.25, sono a Roma, nel mio quartiere. Entro nel solito bar per prendere il solito cappuccino e fare la solita passeggiata – sono un tipo abitudinario. Mentre faccio colazione senza dare fastidio a una mosca, capto una pericolosissima “frase di apertura” che proviene dal tavolino accanto al mio. La frase di apertura è una frase buttata lì a caso da qualcuno con noncuranza, come se fosse una cosa ovvia, scontata (in periodo di saldi) e soprattutto, universalmente condivisibile… gli avventori poco esperti ne trascurano le conseguenze, ma chi ha una certa esperienza di bar fiuta immediatamente il pericolo.

La frase è: “che poi Renzi non è mai stato votato…”.

A pronunciarla è stato un giovanotto sulla ventina, impegnato a fare colazione con una biondina che avrà più o meno la sua età. Noto questi dettagli con la coda dell’occhio, mentre il mio sesto senso inizia a vibrare.

Incrocio lo sguardo allarmato del gestore: lui sa che io so. A questo punto, abbiamo tre possibilità 1) alzare al massimo il volume della radio 2) distogliere l’attenzione dei presenti pronunciando ad alta voce una domanda che non ha niente a che fare con il tema della frase di apertura – del tipo: “sarà vero che nelle arance c’è la vitamina c?” 3) infilare di corsa l’uscita gridando: “a fuoco! A fuoco!”.

Purtroppo, è già troppo tardi.
-Mi scusi se mi intrometto, giovanotto, ma nessun Presidente del Consiglio è mai stato votato.

Nel locale cala improvvisamente il gelo.

A parlare è stato Giovanni Margottini, detto il Ragionere. Uno dei più assidui, antichi e stimati avventori del bar. Margottini è un pensionato che passa buona parte delle sue giornate leggendo il suo giornale al suo tavolino nel suo bar. Ex sessantottino, ex dipendente statale, ex comunista, ex pds, ora fervente sostenitore del Governo Renzi. Si vocifera che nel portafoglio, accanto alla foto dei nipotini, conservi gelosamente un santino della Boschi che illumina a giorno questa valle di lacrime sgranando i preziosissimi occhioni azzurri.

– Come scusi?

Il ragazzetto è rimasto a bocca aperta. Evidentemente non è del quartiere. Deve essere “uno di fuori” che ha pensato bene di passare il sabato mattina con la fidanzatina all’Ikea.

– Ma sì, giovanotto, non ho potuto fare a meno di ascoltare… come diceva quello: mi consenta – il ragioniere abbassa il giornale e lo guarda in tralice, da sotto gli occhiali. Veda, siamo in Italia. Il nostro sistema elettorale non prevede che il Presidente del Consiglio venga eletto – sorride sornione, ammiccando alla biondina, che lo guarda perplessa.
Il ragazzo si innervosisce: “A perché vuole dire che noi non avevamo votato a Berlusconi?”

Lentamente, mi alzo, sguardo basso, nella tasca tengo stretti i soldi. Alla cassa c’è la madre del gestore. La saluto con un sorrisetto di intesa. Sono certo che lei capirà e non mi tirerà dentro questa discussione.

“Proffe! Te che dichi? Chi c’ha ragione?”

Ecco.

Vediamo se riesco a cavarmela in maniera diplomatica.
“Buongiorno Ragioniere” – sorrido.“Ciao Prof.” – mi saluta con un cenno del capo,  ma, a giudicare dall’espressione, non deve essere per niente contento che sia stato chiamato in causa.

Il ragazzetto ha incrociato le braccia sul petto, assumendo un comprensibile atteggiamento di chiusura e di sfida. La biondina lo cinge con un braccio alla vita, forse per trasmettergli sicurezza, come a dire: “stai calmo”.

-Cosa volete che vi dica? Avete ragione entrambi.

-Ah! Mi meraviglio di te, che insegni pure diritto…

-Scusi, ma come facciamo ad avere ragione entrambi?

-Che ce stava nel cappuccino prof? In base a ciò che dice la nostra Carta Costituzionale il popolo vota i suoi rappresentati in Parlamento… mica vota il Presidente del Consiglio.

-Grazie Margottini, credo di sapere come funziona.

– E allora!? De che stamo a parlà?

-Il discorso è un pochino più complesso. Quando diciamo che Renzi non è stato votato intendiamo esprimere una critica politica, non un giudizio giuridico.

-In che senso?

-Nel senso che quando abbiamo votato non avevamo idea del fatto che ci saremmo ritrovati con un Governo Renzi. La scorsa campagna elettorale l’ha fatta Bersani, davanti alle televisioni, sui giornali, il leader era chiaramente Bersani, gli italiani che hanno votato Pd l’hanno fatto sperando in un Governo Bersani.  Alle Primarie gli elettori del Pd votarono Bersani. Ma dopo aver votato “la faccia, le idee e le parole di Bersani”, ci siamo ritrovati con un Governo Letta che è stato sostituito – a seguito di una stranissima crisi lampo – da un Governo Renzi. Mi segui Margottini? Siamo di fronte ad un difetto di legittimazione politica.

– E io che ho detto?!  – interviene raggiante il ragazzetto – Nessuno ha votato Renzi, questo è un Governo illegittimo frutto di un colpo di Stato sionista!

– Frena, non c’è stato nessun colpo di Stato, nessun difetto di legittimità formale – e ci mancherebbe altro.

– E le europee allora?  – interviene nuovamente il ragioniere – nun te scordà che Renzi ha stravinto le europee.

Scusa Margottini ma le Europee non c’entrano proprio nulla con le elezioni politiche. 1) cambia l’elettorato – parliamo di sette/otto milioni di voti di differenza 2) non si presentano le stesse alleanze e/o gli stessi partiti 3) alle europee Renzi ci è arrivato dopo essere già stato nominato Presidente del Consiglio – un vantaggio da niente…

Il ragioniere mi guarda perplesso, muove la bocca come per dire qualcosa,  ma non dice nulla, si limita a fare una smorfia, poi, chiaramente contrariato, torna a nascondersi dietro il suo giornale. La biondina sussurra qualcosa all’orecchio del fidanzato che dice: “vabbè va, famme sta zitto va… ce vorrebbe Lui ce vorrebbe… quanto devo?”

Finale: mi odiano entrambi.
Posso essere certo di aver detto la verità.

Lo Scioccante Esperimento del Prof. Milgram.

La Germania è una nazione civile che ha dato i natali ad importanti filosofi, scienziati e musicisti: uomini di spiccato genio ed indiscutibile caratura morale. Come si spiega allora l’abominio dei campi di concentramento? Come si spiegano le torture che furono perpetrate ai danni di donne, vecchi, bambini, uomini innocenti e inermi? Nel breve volgere di venti anni, molte persone comuni – tra cui medici, infermieri, scienziati – insomma, molti “normali cittadini” si trasformarono in sadici “aguzzini” al servizio di un disegno sanguinario. Come è stato possibile che accadesse tutto ciò?

Queste erano le domande che ossessionavano Stanley Milgram, lo psicologo americano di origini ebraiche, che nel 1961 realizzò un esperimento “scioccante” e giustamente passato alla storia.

Milgram fece mettere un annuncio sul giornale dell’Università di Yale e reclutò in tal modo una manciata di studenti che avrebbero avuto il ruolo di “cavie”. Quando uno di questi – che chiameremo per comodità A – si recava nell’aula deputata all’esperimento, trovava ad attenderlo il Prof. Milgram – con il suo bel camice bianco -; un folto gruppo di assistenti – altrettanto ben vestiti – e un altro studente – che chiameremo studente B – legato su di una sedia e collegato ad un imprecisato numero di elettrodi. A quel punto, Milgram spiegava allo studente A come si sarebbe svolto l’esperimento: lo scopo era di verificare la capacità mnemonica di uno studente sotto stress. A tal fine, Milgram avrebbe rivolto alcune domande allo studente B – lo studente che si trovava legato sulla sedia. Se B avesse risposto correttamente non sarebbe accaduto nulla. Ma se B avesse sbagliato la risposta, A avrebbe dovuto sanzionarlo manovrando una leva e fornendogli, in tal modo, una scarica elettrica.

Ogni volta che B avesse sbagliato risposta, l’entità della scarica elettrica sarebbe stata superiore, sino a raggiungere una portata potenzialmente letale. Come dico sempre ai miei studenti: questo è il metodo che utilizzo normalmente in sede d’esame. La classe ride. Ma chissà per quale motivo, si tratta di una risata un po’ tesa…

Ad ogni modo, iniziamo l’esperimento.

Milgram pone le prime domande e B, che si è giustamente preparato, risponde alla perfezione. Ma dopo una ventina di minuti – vuoi per distrazione, vuoi perché le domande si fanno via via più complicate – inizia a cadere in errore. L’altro studente, diligentemente, svolge il suo compito e aziona il meccanismo che, a giudicare dalle reazioni di B, non produce niente di più che un leggero fastidio – paragonabile ad un pizzico, un piccolo morso. Con il passare del tempo, le scariche si fanno però più dolorose. B inizia quindi a piangere, afferma di soffrire di cuore, chiede che venga interrotto l’esperimento. Lo studente preposto ad azionare la leva si ferma per un attimo, sembra indeciso sul da farsi… Milgram e i suoi assistenti capiscono il momento di difficoltà e provano a convincerlo: “il tuo amico sapeva a cosa andava incontro”; “esattamente come te, ha firmato un contratto e sarà giustamente retribuito”; “dobbiamo andare avanti, per il bene della scienza”.

Ovviamente, non c’era nessuna scarica elettrica – a questo punto la classe tira un sospiro di sollievo. Il vero oggetto dell’esperimento era lo studente che avrebbe dovuto azionare la leva, mentre lo studente che era stato legato alla sedia era solo un attore, pagato per recitare sofferenze e dolori che non avrebbe dovuto avvertire. Milgram voleva vedere quanti ragazzi, a fronte di un ordine dell’autorità, sarebbero arrivati a comminare l’ultima scarica, la scarica potenzialmente letale.

Totale: nell’America liberale, istruita e democratica degli anni Sessanta, un numero estremamente esiguo di studenti universitari si rifiutò di portare a termine l’esperimento. Le conclusioni cui giunse l’Autore sono che quando ci troviamo a dover eseguire un compito – non importa quale esso sia – tendiamo a mettere da parte la nostra coscienza morale: ci accontentiamo delle spiegazioni che ci vengono fornite dai capi e ci concentriamo sul nostro piccolo dovere quotidiano, ci trasformiamo nel più servizievole ed oliato ingranaggio di un grande meccanismo – un ospedale, una università, un carcere – senza avere più la capacità – la forza  morale – di opporci, di riflettere sul senso e sul valore delle nostre azioni.

Credo che questo esperimento riguardi e interroghi tutti. Credo che dovremmo sempre tenerlo a mente quando svolgiamo il nostro lavoro. Amiamo pensare di essere pienamente consapevoli e responsabili delle nostre azioni. Pensiamo a noi stessi come ad individui corretti che agiscono in maniera razionale. Ma la verità è che siamo tutti schiavi di preoccupazioni concrete, contingenti, banali. Per questo motivo, tendiamo a perdere di vista il disegno di insieme: la nostra coscienza morale si addormenta, si fiacca, perde inesorabilmente vitalità e  vigore.

Il nostro compito è allora di continuare a sentire la scossa del prof. Milgram, impedire che tutto questo accada, restare vigili e di continuare a muoverci in direzione ostinata e contraria.

“Io eseguivo gli ordini” è solo una piccolissima foglia di fico. Nemmeno il più piccolo degli uomini può sperare di trovarvi adeguato riparo.

Cosa vuoi che succeda?

Sono le 7.05 di giovedì 12 maggio, sono a Roma, devo andare a Torino per lavoro. Dopo anni di viaggi,  ho elaborato un preciso algoritmo multitasking che mi permette di ottimizzare i tempi alla perfezione: mi faccio la barba sotto la doccia, mentre mi lavo i denti; bevo il caffè annodandomi la cravatta, chiudo la valigia mentre prendo le chiavi di casa, strategicamente appoggiate sul cellulare la sera prima. La cosa importante è non fare confusione con gli step, altrimenti ti ritrovi a bere il caffè sotto la doccia – e non è mai facile. Ad ogni modo, oggi sono in anticipo di quindici minuti sulla tabella di marcia, ma prima di uscire di casa il cellulare mi avverte che qualcuno ha appena commentato un mio post. Per un attimo resto fermo sulla soglia, indeciso se leggere o meno, poi, considerato che sono in netto anticipo, chiudo la  porta e mi metto al computer. “Cosa vuoi che succeda?” – mi dico.

Succede che tra una cosa e l’altra resto una ventina di minuti davanti al computer. Ora non sono più in netto anticipo, sono in perfetto orario. Non sono affatto preoccupato, ma quando imbocco via Tuscolana trovo ad aspettarmi un vero delirio in perfetto stile Indipendence day: ambulanze, camion dei pompieri, macchine della polizia, la statua di Santa Rosalia con annessa processione e una parata di alpini che celebrano la fine della Grande Guerra. Totale: dopo quaranta minuti di traffico ho percorso circa tredici metri e trentasei centimetri. Decido dunque di cambiare il piano iniziale: faccio inversione, lascio la macchina nel primo posto libero che trovo e scendo a prendere la metro alla fermata di Lucio Sestio. A quel punto, mi rendo conto di aver lasciato l’ombrello in macchina. Decido quindi di risalire in superficie per recuperare l’ombrello. Mentre lo faccio, passa ovviamente la metro.

Arrivo alla stazione Termini alle ore 10.04, sul tabellone delle partenze c’è ancora l’indicazione del mio treno che dovrebbe partire alle 10.05. Inizio a correre come un folle, dribblando trolley, scavalcando vecchiette e facendo serpentine che neanche Maradona nella famosa partita contro l’Inghilterra. Quando finalmente arrivo ai binari sono sudato come un maiale che ha fatto due ore di sauna e in evidente debito di ossigeno. Alzo di nuovo gli occhi al tabellone per vedere da quale binario sta per partire il mio treno, ma il mio treno, sul cartellone, non c’è più. Pizzul commenta ironico: “una segnatura di straordinaria e pregevole fattura”.  Per la prima volta in vita mia ho perso il treno. Che sensazione di leggera follia.

Ci sono ancora sei posti liberi sul treno delle undici. 116 euro che non rivedrò mai più.

Tutto questo mi ha suggerito due  importantissime riflessioni che vorrei sottoporre alla vostra attenzione oggi.

La prima è la teoria degli errori crescenti: a giudicare dalla frequenza dei mezzi di soccorso, gli alieni devono aver iniziato ad invadere il nostro pianeta pochi istanti prima che io salissi in macchina, quindi, la colpa di tutto quello che è accaduto è da rintracciare nei venti minuti che ho passato su Internet. Questo conferma un antico insegnamento dantesco ed una più moderna teoria di Anthony Robbins: se avete un piano, non lasciatevi distrarre dalle piccole cose, fate in modo di seguirlo alla perfezione. Immaginate di essere il capitano di una nave che deve salpare per i Caraibi, quando partite dall”Europa notate che c’è un leggerissimo errore nella rotta, “cosa vuoi che sia un grado di errore?” – pensate. Dopo sei mesi di navigazione sarete passati da “potresti chiedere al cameriere di portarmi un altro margarita?” a “guarda, un orso polare sta divorando la nostra merenda”. Insomma, piccole deviazioni di rotta generano valanghe. E le valanghe distruggono tutto.

La seconda è la teoria dei costi irrecuperabili. Se avessi deciso di lasciare in macchina l’ombrello, sarei arrivato in orario al Convegno e avrei dovuto spendere meno di venti euro per comprarne uno nuovo a Torino. Ma dovendo decidere in fretta ho fatto la cosa più semplice e naturale, sono risalito di corsa in superficie sperando che nel frattempo non passasse la metro. Quella dei costi irrecuperabili è una trappola in cui cadiamo tutti almeno una volta nella vita. Molte volte, parlando con i miei studenti, ne ho riconosciuto il meccanismo perverso. Dopo uno o due anni di Giurisprudenza, alcuni di loro si rendono conto di aver sbagliato Facoltà, ma si dicono “come faccio a buttare gli esami che ho fatto sino ad ora dalla finestra? A questo punto, meglio andare fino in fondo.” Quante volte evitiamo di fare la cosa giusta pensando che cambiare percorso significherebbe aver speso inutilmente del tempo? Ci rendiamo conto di aver sbagliato, ma preferiamo insistere piuttosto che accettare di aver preso la strada sbagliata. Devo darti una brutta notizia: nella vita esistono costi irrecuperabili. Accettalo. Se ti trovi incastrato in una di queste situazioni, il mio consiglio è di non pensarci due volte: butta tutto dalla finestra e ri-inizia da capo, accetta di aver perduto qualcuno o qualcosa, perché il futuro potrebbe offrirti migliori opportunità, sbrigati, fallo ora, prima di ritrovarti a Torino con due ore di ritardo, 116 euro in meno e un ombrello vecchio.

Il Bambino Magico

“Reprimere un’artista è un crimine: significa uccidere una vita che germoglia” – Egon Schiele, 1912.

“Diventa ciò che sei” è uno degli insegnamenti fondamentali della saggezza greca.  Potremmo addirittura sostenere che rappresenti uno dei pilastri su cui poggia l’intera speculazione filosofica occidentale.  L’altro, come tutti sanno, è “conosci te stesso”  – e chiedigli se c’ha un’amica.

Scherzi a parte, non sarebbe sufficiente un intero corso di laurea per spiegare il significato della frase “diventa ciò che sei”. Ad una prima lettura, il senso di questo motto potrebbe suonare semplice, lineare – se non addirittura ovvio, banale, in periodo di saldi (scontato). Invece, rappresenta il biglietto di sola andata per un lungo e pericoloso viaggio. Un po’ come la decisione di mettere la riforma costituzionale in mano alla Boschi.

Provo a spiegarmi: il verbo “diventare” – utilizzato all’imperativo – implica che lo sguardo del soggetto sia rivolto verso il futuro. Mentre il verbo essere – utilizzato al presente – implica che il soggetto si trovi già in una certa condizione. A stretto rigor di logica, saremmo dunque di fronte ad un paradosso: niente può trasformarsi in ciò che è. Un gatto è un gatto, una candela è una candela, un sasso è un sasso. Tuttavia, a differenza del gatto, della candela e del sasso, l’essere umano è libero e può negare la sua natura. Al contrario del gatto, della candela e del sasso, l’uomo può rifiutare se stesso, fare violenza alla sua identità, disconoscere il suo vero volto. Mettere la cipolla nella carbonara.

Insomma, il nostro primo e più importante compito è fare in modo di realizzare la nostra vera natura. Qualsiasi sofferenza della nostra anima e della nostra coscienza dipende dal fatto che in un certo momento del nostro sviluppo abbiamo smesso di realizzare la nostra vocazione ed abbiamo assunto – o siamo stati costretti ad assumere – un ruolo che non ci appartiene.

Per questo motivo, una delle peggiori violenze che si possa fare ad una persona consiste nel non riconoscerne il volto: forzandola ad indossare una maschera. Pretendere che un animale si comporti come un essere umano; che un bambino agisca e pensi come un adulto; che Salvini diventi un politico.

Quando parlo di queste cose  mi viene sempre in mente un mio caro amico che fu costretto con la forza dalla sua maestra delle elementari ad utilizzare esclusivamente la mano destra, sebbene fosse mancino. Spesso, i figli sono costretti a prendersi una laurea, fare uno sport o sposarsi solo perché i genitori preferiscono avere un figlio laureato, sportivo, sposato  – insomma, un figlio come lo immaginano loro – piuttosto che accettare il figlio che hanno ricevuto in dono da Dio e che, magari, non ha nessuna intenzione di studiare, di fare sport o di sposarsi.

Il Bambino Magico

Pensieri come questi sono germogliati nella mia mente qualche giorno fa, quando ho finito di leggere il libro di Maria Paola Colombo (Il bambino magico, Mondadori, Milano 2016, 268 p.). Si tratta di un romanzo – ben scritto e facile da leggere – che racconta la vita di tre bambini africani – seguendoli dalla prima infanzia sino al raggiungimento della maturità. Nella lineare semplicità della prosa – non priva di delicata magia e di validi slanci poetici – ritroviamo molti ed interessanti argomenti di discussione, come, ad esempio, la povertà, l’immigrazione, l’educazione, la globalizzazione… tuttavia, se dovessi scegliere un solo argomento – se dovessi identificare il perno attorno al quale “gira” questo romanzo – direi che esso consiste nel tema del miscoscimento. Più precisamente, nelle difficoltà a cui vanno incontro i “diversi” per crescere, accettare se stessi e diventare uomini, sopravvivendo alla propria adolescenza.

Utilizzando il termine “diversi” intendo qui fare riferimento ai poeti, agli artisti, ai disabili, ai malati, ai ribelli, agli stranieri, agli omosessuali, ai poveri… Insomma, a tutti coloro i quali  sentono di essere naturalmente altro dalla società che li ospita e li circonda.

Come tutti sanno, la logica basilare del gruppo implica la ricerca di un capro espiatorio. Ovvero, di una vittima predestinata, un agnello sacrificale da immolare sull’altare della normalità. Per questo motivo, ogni bambino magico viene normalmente temuto, deriso ed isolato dai suoi simili. Per crescere, egli dovrà affrontare mille difficoltà, ma in questa sofferenza potrà trovare la sua più grande forza. Se è vero come è vero che “un adulto creativo è un bambino sopravvissuto” (U. K. Le Guin).

Non pensiate, però, che Il bambino magico sia un romanzo triste. Tutt’altro, grazie a questa storia si viaggia con il pensiero, si ride, ci si innamora della infinita saggezza africana. Mi sento quindi di consigliarvi di leggere il libro e di farlo leggere ai vostri amici, figli e studenti.

Il bambino magico è un’ottima occasione per sognare, discutere e riflettere. Non lasciatevelo sfuggire.