La Germania è una nazione civile che ha dato i natali ad importanti filosofi, scienziati e musicisti: uomini di spiccato genio ed indiscutibile caratura morale. Come si spiega allora l’abominio dei campi di concentramento? Come si spiegano le torture che furono perpetrate ai danni di donne, vecchi, bambini, uomini innocenti e inermi? Nel breve volgere di venti anni, molte persone comuni – tra cui medici, infermieri, scienziati – insomma, molti “normali cittadini” si trasformarono in sadici “aguzzini” al servizio di un disegno sanguinario. Come è stato possibile che accadesse tutto ciò?
Queste erano le domande che ossessionavano Stanley Milgram, lo psicologo americano di origini ebraiche, che nel 1961 realizzò un esperimento “scioccante” e giustamente passato alla storia.
Milgram fece mettere un annuncio sul giornale dell’Università di Yale e reclutò in tal modo una manciata di studenti che avrebbero avuto il ruolo di “cavie”. Quando uno di questi – che chiameremo per comodità A – si recava nell’aula deputata all’esperimento, trovava ad attenderlo il Prof. Milgram – con il suo bel camice bianco -; un folto gruppo di assistenti – altrettanto ben vestiti – e un altro studente – che chiameremo studente B – legato su di una sedia e collegato ad un imprecisato numero di elettrodi. A quel punto, Milgram spiegava allo studente A come si sarebbe svolto l’esperimento: lo scopo era di verificare la capacità mnemonica di uno studente sotto stress. A tal fine, Milgram avrebbe rivolto alcune domande allo studente B – lo studente che si trovava legato sulla sedia. Se B avesse risposto correttamente non sarebbe accaduto nulla. Ma se B avesse sbagliato la risposta, A avrebbe dovuto sanzionarlo manovrando una leva e fornendogli, in tal modo, una scarica elettrica.
Ogni volta che B avesse sbagliato risposta, l’entità della scarica elettrica sarebbe stata superiore, sino a raggiungere una portata potenzialmente letale. Come dico sempre ai miei studenti: questo è il metodo che utilizzo normalmente in sede d’esame. La classe ride. Ma chissà per quale motivo, si tratta di una risata un po’ tesa…
Ad ogni modo, iniziamo l’esperimento.
Milgram pone le prime domande e B, che si è giustamente preparato, risponde alla perfezione. Ma dopo una ventina di minuti – vuoi per distrazione, vuoi perché le domande si fanno via via più complicate – inizia a cadere in errore. L’altro studente, diligentemente, svolge il suo compito e aziona il meccanismo che, a giudicare dalle reazioni di B, non produce niente di più che un leggero fastidio – paragonabile ad un pizzico, un piccolo morso. Con il passare del tempo, le scariche si fanno però più dolorose. B inizia quindi a piangere, afferma di soffrire di cuore, chiede che venga interrotto l’esperimento. Lo studente preposto ad azionare la leva si ferma per un attimo, sembra indeciso sul da farsi… Milgram e i suoi assistenti capiscono il momento di difficoltà e provano a convincerlo: “il tuo amico sapeva a cosa andava incontro”; “esattamente come te, ha firmato un contratto e sarà giustamente retribuito”; “dobbiamo andare avanti, per il bene della scienza”.
Ovviamente, non c’era nessuna scarica elettrica – a questo punto la classe tira un sospiro di sollievo. Il vero oggetto dell’esperimento era lo studente che avrebbe dovuto azionare la leva, mentre lo studente che era stato legato alla sedia era solo un attore, pagato per recitare sofferenze e dolori che non avrebbe dovuto avvertire. Milgram voleva vedere quanti ragazzi, a fronte di un ordine dell’autorità, sarebbero arrivati a comminare l’ultima scarica, la scarica potenzialmente letale.
Totale: nell’America liberale, istruita e democratica degli anni Sessanta, un numero estremamente esiguo di studenti universitari si rifiutò di portare a termine l’esperimento. Le conclusioni cui giunse l’Autore sono che quando ci troviamo a dover eseguire un compito – non importa quale esso sia – tendiamo a mettere da parte la nostra coscienza morale: ci accontentiamo delle spiegazioni che ci vengono fornite dai capi e ci concentriamo sul nostro piccolo dovere quotidiano, ci trasformiamo nel più servizievole ed oliato ingranaggio di un grande meccanismo – un ospedale, una università, un carcere – senza avere più la capacità – la forza morale – di opporci, di riflettere sul senso e sul valore delle nostre azioni.
Credo che questo esperimento riguardi e interroghi tutti. Credo che dovremmo sempre tenerlo a mente quando svolgiamo il nostro lavoro. Amiamo pensare di essere pienamente consapevoli e responsabili delle nostre azioni. Pensiamo a noi stessi come ad individui corretti che agiscono in maniera razionale. Ma la verità è che siamo tutti schiavi di preoccupazioni concrete, contingenti, banali. Per questo motivo, tendiamo a perdere di vista il disegno di insieme: la nostra coscienza morale si addormenta, si fiacca, perde inesorabilmente vitalità e vigore.
Il nostro compito è allora di continuare a sentire la scossa del prof. Milgram, impedire che tutto questo accada, restare vigili e di continuare a muoverci in direzione ostinata e contraria.
“Io eseguivo gli ordini” è solo una piccolissima foglia di fico. Nemmeno il più piccolo degli uomini può sperare di trovarvi adeguato riparo.