Nel Nome Del Padre.

L’antica saggezza biblica ci ha insegnato che gli errori dei padri ricadranno sui figli. Si tratta di una frase estremamente sintetica, ma colma di significati. Proviamo a riflettere insieme.

1. Giustizia.
Quando leggiamo questa frase, la prima idea che abbiamo è che essa faccia riferimento ad una sorta di imperscrutabile legge del destino per cui i figli saranno condannati per errori che non hanno commesso.  In un primo senso, parecchio semplice ed intuitivo, questa frase ha quindi il sapore della pena divina che sancisce una profonda ingiustizia. Di fatti, uno dei principi più importanti di un sistema legale moderno e civile è che la responsabilità penale è personale: che colpa abbiamo noi se i nostri padri sono stati deboli, cattivi o incapaci? Perché dobbiamo saldare il conto per le loro malefatte?  Tuttavia, se ci togliamo gli occhiali dell’avvocato e consideriamo la questione da un altro punto di vista, ci rendiamo conto che questa frase può essere letta in maniera diversa. E sicuramente meno urticante.

Di fatti, essa non fa altro che illustrare una inequivocabile e chiarissima legge naturale per cui ciò che viene prima è causa di ciò che viene dopo. In questa seconda accezione, che potremmo chiamare “la teoria del debito pubblico”, non si tratta tanto di essere costretti a pagare per le colpe dei padri, quanto di dover porre rimedio alle colpe dei propri antenati – a prescindere dal fatto che fossero madri o padri. In questa seconda accezione, la frase diventa forse più tollerabile. Anche se risulta comunque parziale e pessimista, perché dimentica di evidenziare l’altra faccia della medaglia, ovvero che i figli mangeranno i frutti dl un campo che è stato arato con il sudore dei padri.

Insomma, se dobbiamo lamentarci di qualcosa – la qualità del cibo e dell’aria, i posti di lavoro, la entità delle pensioni che non riceveremo –  possiamo giustamente puntare il dito contro chi ci ha preceduto. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che se posiamo essere felici di qualcosa – come, ad esempio, l’aumento della vita media, l’ingegneria genetica o la crescente qualità delle pizze surgelate -, lo dobbiamo alla lungimirante saggezza degli uomini e delle donne che ci hanno preceduto.

2. Ambiente.
Dal punto di vista sociologico, questa frase significa invece che un bambino sarà sempre giudicato per la famiglia di provenienza. A scuola, in chiesa, in un campo di calcio, ovunque si trovi, le persone che lo circondano avranno un pregiudizio basato sulla ricchezza, sulla fama o sul lignaggio dei genitori. Ogni bambino si porta dietro la lunga ombra del proprio cognome. In maniera tanto stupida quanto spontanea, tutti noi saremmo portati ad affidare un progetto di ricerca al figlio di Einstein,  il cappello da Chef al figlio Cannavacciuolo, una fabbrica di ruspe al figlio di Salvini.

3. Fare come te.
In senso più sottile, questa frase sta a significare che ogni bambino pagherà per le nevrosi, i tic e le manie di suo padre. In questo caso, la frase afferma qualcosa di più sottile e profondo. Non si tratta esattamente di errori, di colpe, che i padri hanno commesso più o meno volontariamente, ma della possibilità che i loro demoni contagino i figli, segnandone in maniera netta ed irrimediabile il destino. Come insegna la saggezza popolare: “il frutto non cade lontano dall’albero”; “tale padre, tale figlio”; “per fortuna Formigoni ha fato voto di castità”.

Scherzi a parte, non può essere negato che gli uomini imparano per imitazione. Tutti noi cresciamo facendo ciò che abbiamo visto fare agli altri. Questo meccanismo è profondo e parecchio radicato, al punto che agisce in maniera del tutto inconsapevole. Automatica. Non dobbiamo necessariamente decidere di imitare quello che fanno le persone che ci sono accanto, lo facciamo e basta. Perché crescere per imitazione fa parte della nostra natura. Pensate a come nascono e si diffondono le rivoluzioni, le mode e le bufale che condividiamo su Facebook.  Pensate a quanto è facile piangere ad un funerale, quando tutti attorno a noi piangono. O ridere quando Gasparri scrive su Twitter. Qualcuno direbbe che tutto ciò accade per il lavorio incessante dei nostri neuroni specchio, ma questo ci porterebbe davvero troppo lontano e probabilmente fuori tema. Il fatto è che un bambino osserva suo padre, perché il padre è l’uomo saggio, buono e potente che egli vorrebbe diventare in futuro. La cosa più importante, al riguardo, è che si insegna con l’esempio molto più che con le parole.

Alla ricerca di Nemo. Per quanto possa sembrare paradossale, il richiamo e lo stimolo ad imitare non giunge solo da una figura paterna presente, vicina, visibile, ma arriva altrettanto e forse più chiaramente da un padre assente, lontano, irraggiungibile. Non mi riferisco solo a quelle situazioni in cui il figlio non si trova fisicamente con suo padre ed avverte dunque la fame, l’urgenza quasi fisica, reale, concreta, di parlare con lui – immaginando dove sia o cosa stia facendo mentre è assente -, ma parlo di quei padri che, pur vivendo con i propri figli, si sottraggono più o meno consapevolmente al proprio ruolo. Questi padri sono i padri che generano figli imitatori. Immancabilmente, il bambino non troverà niente di meglio da fare che ripercorrere i passi dell’adulto, incamminandosi sulla stessa strada. Più o meno coscientemente, ne sceglierà gli studi, la professione e le passioni, illudendosi, in tal modo, di poter (ri)costruire un dialogo che manca o è mancato in passato.

Esattamente come Telemaco, ogni figlio si lancia alla ricerca del padre.

Come ho letto da qualche parte:

Un padre disse al figlio: “fa attenzione a dove metti i piedi!”
Il figlio rispose: “sta’ attento tu, perché io seguirò i tuoi passi”.

Il Geniale Fan Club Dei Piccoli Penalisti.

Cari amici, in questi ultimi giorni ho avuto un breve scambio di idee con l’autore di una pagina satirica che si fa allegramente chiamare “il triste mietitore”. Il personaggio in questione aveva infatti pubblicato una sua battuta in cui affermava di “non aver mai capito” per quale motivo commettere un delitto sotto l’effetto di stupefacenti rappresentasse un’attenuante e non una aggravante. Considerato che questa battuta ha ottenuto circa ottomila like e un numero impressionate di condivisioni, ho pensato che fosse il caso di provare a spiegare ciò che l’autore stesso affermava di non aver mai capito.

Per questo motivo, ho ricevuto moltissimi e graditi attestasti di stima e di solidarietà, la risposta dello stesso triste mietitore ed una decina di critiche davvero interessanti dal punto di vista psico-socio-antropologico. Diversamente da quanto sono solito fare, non ho risposto a tutti i commenti, ma vi assicuro che li ho letti. Potete stare certi che non vi ho abbandonato,  stavo solo aspettando di scoppiare al momento giusto. “Come le bombe di stato” (JLF).

Sul contegno del triste mietitore non ho davvero niente da eccepire. Va bene, ha pubblicato una battuta “insensata”, contribuendo a diffondere una interpretazione del diritto penale erronea.  E soprattutto, pericolosa. Però, quando ha letto la mia replica ha deciso di ospitarla sulla sua pagina, dimostrando di essere un mietitore serio e corretto. Inoltre, ha provato a giustificarsi, in maniera a dire il vero poco convincente, ma comunque sottolineando che la sua era solo una battuta nata su twitter, che non avrebbe avuto a disposizione i caratteri necessari per sviscerare adeguatamente la questione, che i termini “attenuante/aggravante” da lui utilizzati non avrebbero dovuto essere interpretati in senso penalistico e che comunque era sorpreso del fatto che le sue parole potessero avere tutto questo peso.

Non ho replicato e non intendo replicare. Credo che il discorso sia ormai chiaro e che l’autore di quella pagina se ne sia reso perfettamente conto. Ripeto: sono rimasto molto impressionato dal fatto che abbia deciso di pubblicare la mia replica, ha dimostrato di essere una persona “seria” e pronta al dialogo. Anche se con il post successivo mi ha velatamente augurato di morire.

Detto questo, le persone che più mi hanno stupito sono i follower del suddetto mietitore e la loro penosissima voglia di attaccare me per difendere l’indifendibile. Come disse Woody Allen: non ho nessun problema con Dio, è il suo fan club a farmi paura. Proverò di seguito a commentare le loro argomentazioni.

“Capitan Ovvio”: si tratta di una pagina satirica!
Ma dai, davvero? Chissà quale strana concezione della satira hanno queste persone. Di fatti, uno dei siti satirici più famosi d’Italia chiede ai suoi membri di verificare attentamente le notizie, prima di fare una battuta. Una cosa è fare satira, altra cosa è diffondere bufale. Voglio dire, se scrivo “non ho mai capito perché quando una persona beve succo di limone guarisce dal cancro” non ho fatto una battuta, ho solo affermato una stupidaggine. Contribuendo a mettere in pericolo la vita delle persone. Se il presupposto è completamente errato non ci può essere niente di divertente. A me sembra un discorso semplice, ma deve essere troppo complicato per Capitan Ovvio.

Il Professore: la verità è che se assumi droghe ti becchi una aggravante.
Scusa collega, hai provato a capire ciò che ho scritto, prima di commentare? Quando leggo questo genere di commenti faccio fatica a non vedere la malafede di chi spera solo di attirare l’attenzione. Non so se sia peggio supporre che alcuni utenti siano affetti da una forma parecchio preoccupante di esibizionismo da social, oppure pensare che abbiano la stessa capacità di dialogare di un carapace.

Il Benaltrista: i veri problemi sono altri.
Ovviamente, quando qualcuno critica qualcosa – qualsiasi cosa – la risposta più facile consiste sempre nel dire che “i veri” problemi sono altri: la fame nel mondo, l’inquinamento, la guerra nucleare, Gasparri… Si tratta di un argomento inattaccabile, ci sarà sempre qualcosa di peggio. Eppure, a me sembra parecchio grave che qualcuno diffonda l’idea per cui se commetti un omicidio sotto l’effetto di droghe ti viene riconosciuta una circostanza attenuante. Forse, sarebbe meglio che la gente sapesse che si tratta di una aggravante. Ma io sono “vecchio stampo”. Preferisco vivere in una società sicura. Capisco che questo mio inutile pallino debba essere ponderato con le più alte  esigenze della “satira”. Me ne farò una ragione.

Il Furbo: guardate bene, questa pagina è piena di studenti ruffiani!
Molte persone credono che questa pagina sia popolata dai miei studenti. Ma i dati di geolocalizzazione dimostrano che la città in cui ho più seguito è Milano, seguita da Roma, Genova, Firenze… insomma, i miei alunni si tengono alla larga da questa pagina perché loro, prima e più di chiunque altro, hanno capito che la mia attività professionale è cosa ben più seria, diversa e separata dalla mia istrionica, hobbistica e giocosa presenza sui social network.  Bravi ragazzi, sono sinceramente orgoglioso di voi. Non mi stancherò mai di dire che insegnare è un ottimo modo per apprendere. Detto ciò, il primo che condivide questo post si aggiudica la lode.

Il Dubbioso: quindi, se sparo a mia suocera mentre sono ubriaco non mi ritirano la patente?
No, mio piccolo analfabeta di ritorno, non hai capito nulla. Non stiamo parlando dell’omicidio stradale. il tema è un altro. Adesso, per favore, torna a intrecciare canestri con la paglia e lascia che i grandi si confrontino su internet.

Questo è quanto. Se volete leggere gli originali, potete andare a controllare sulla mia pagina: non ho cancellato nulla, ma non ho neanche risposto. In fondo, il mio segreto preferito resta quello dello sciocco che tace: l’unico modo per far tacere un cretino consiste nel non rivolgergli la parola.

Come dico sempre in questi casi: dalla prossima settimana torniamo a parlare di cose serie.

La Mia Recensione Doppia

Se ancora non siete andati a vedere Perfetti Sconosciuti vuol dire che siete in forte ritardo. Di seguito, vi propongo la mia recensione  – evitando di anticipare il finale e/o altri colpi di scena. Più esattamente, vi propongo la mia recensione doppia. Così finalmente capirete perché odio essere bipolare.
È bellissimo.

1) La recitazione di Valerio Mastandrea. Si tratta di una “giovane promessa” che ha iniziato la propria carriera facendo brevi comparsate al Maurizio Costanzo Show dove interpretava la parte del coatto di periferia – insomma, non recitava affatto. Nel film, egli dimostra di essere molto cresciuto da allora e di aver imparato a recitare benissimo. Per molti spettatori, si tratta di una scoperta che vale il prezzo del biglietto – anche se Mastandrea aveva fornito altre ed altrettanto convincenti prove in passato: basti pensare al drammatico “Un giorno perfetto” (2008). Insomma, il ragazzo si è imposto come saltimbanco da due lire e poi ha sfruttato la fama ottenuta per studiare, crescere e migliorare la propria arte, esattamente come ha fatto Jovanotti.
Molti sostengono che anche Renzi seguirà questo schema, ma a quanto pare siamo ancora fermi alla fase Give me Five!

1) La recitazione di Valerio Mastandrea. Troppo facile. A ben vedere, non ci sono altri attori nel film. Badate bene, lo dico con il massimo rispetto per Giallini, per Battiston e per tutti gli altri coprotagonisti. Il problema non è la indiscussa vena artistica di queste persone, il problema è ciò che è stato loro chiesto.  In realtà, nessuno di loro è chiamato a recitare. Sono caratteristi. Hanno un personaggio ben cucito e confezionato sul corpo, sul volto, sui vestiti. Non a caso, sembrano appena usciti da altri film dove indossavano più o meno gli stessi panni, utilizzando esattamente lo stesso tono, lo stesso registro. Credo che tutto questo non sia capitato, ma che sia stata una scelta consapevole. Con molta probabilità, il fine era di dare forza a Mastandrea, aumentando il grado di drammaticità del suo personaggio, in modo che il suo messaggio, il suo ruolo, le sue battute potessero risultare sembrare ancora più nette e forti. Insomma, siamo di fronte ad un facile espediente retorico. Ma se avessi voluto assistere ad uno spettacolo in cui tutti si inchinano per far sembrare qualcuno più alto di quello che è, sarei rimasto a casa a guardare Mentana ed il suo telegiornale.

2) La sceneggiatura. Un gruppo di amici sulla quarantina si ritrova a cena a casa di una coppia formata da un chirurgo plastico e una psicologa. Dopo poco, la padrona di casa propone di mettere sul tavolo i rispettivi cellulari e di condividere senza alcun pudore o remora ogni tipo di messaggio dovesse arrivare nel corso della serata – mettendo in viva voce le telefonate. Immediatamente, alcuni personaggi iniziano a innervosirsi, temendo che gli altri, o il proprio partner, possano venire a conoscenza di avvenimenti, amicizie o relazioni che dovrebbero più convenientemente restare private. Si tratta di una situazione potenzialmente esplosiva. A partire dai primi piccoli e tutto sommato innocui segreti, come la partita di calcetto a cui tutti (o quasi) vengono invitati, lo spettatore viene coinvolto in un crescendo di colpi di scena che arriva a toccare, nel finale, un considerevole livello di drammaticità. Insomma, il film fa ridere e piangere allo stesso tempo. Esattamente come Matteo Salvini.

2) La sceneggiatura. Si racconta di un giovane musicista che voleva a tutti i costi sottoporre una propria opera al giudizio di Mozart. Mentre Mozart, dal canto suo, non voleva saperne di valutarne il lavoro. Dopo molte e insistenti richieste, il ragazzo riesce a convincere il grande compositore a concederli una misera chance. Mozart prende seriamente l’impegno e decide di riservarsi il giusto tempo per valutare lo spartito. Dopo qualche settimana il grande compositore chiama il giovane, lo riceve nuovamente nel suo studio e gli dice: “amico mio, in questa composizione ci sono tante cose belle e tante cose nuove”. Il ragazzo è visibilmente commosso. Ma Mozart subito dopo aggiunge: “peccato che le cose belle non siano nuove e le cose nuove non siano belle”. Quando ho visto questo film ho pensato al momento in cui ho smesso di leggere i fumetti di Dylan Dog perché la sceneggiatura era diventata troppo prevedibile. A me sembra che ormai in Italia ci sia una tendenza narrativa parecchio consolidata per cui  alcuni personaggi sono sempre sensibili, sinceri e buoni, mentre altri sono necessariamente brutali, falsi e cattivi. Non è una bella cosa. Si tratta della più sottile e perversa forma di discriminazione. Voglio dire: affermare che tutte le persone grasse sono infide e volgari è tanto discriminante e sciocco quanto affermare che tutte le persone grasse sono sensibili e leali. Forse lo è ancora di più, perché nel secondo caso non siamo in grado di cogliere, stigmatizzare e combattere una generalizzazione che nel primo caso risulta invece evidente e facilmente censurabile.

3) La colonna sonora. Sottolinea con leggerezza i passaggi cruciali del film, senza risultare mai sopra le righe o peggio ancora invadente. Un lavoro ben confezionato.

3) La colonna sonora. Non c’è. Scivola via come acqua su un vetro. Io non dico che avrebbero dovuto scomodare Morricone, ma provare a scrivere qualcosa di minimamente originale avrebbe potuto essere di aiuto.

Conclusioni
Questo è un Paese vecchio e completamente avvitato su sé stesso
che non riesce più a provocare né proporre nulla di nuovo in nessun campo. Andate a vedere questo film se ancora riuscite ad ascoltare Sanremo, a tollerare Fazio, le barzellette di Berlusconi o l’innovativo giornalismo di Lilli Gruber. Altrimenti, statevene alla casa a guardare Compagni di Scuola (Verdone, 1988). Molto meglio l’originale che l’imitazione di una imitazione.

Conclusioni.
Vale davvero la pena di andare a vedere questo film. Lo spunto tematico è parecchio interessante. La trama è godibile. Gli attori sono all’altezza della situazione. Insomma è una ottima commedia italiana, buona per ridere, riflettere e discutere con gli amici.