Violenza verbale e violenza fisica

Notte degli Oscar, Chirs Rock fa una battuta sull’alopecia della moglie di Will Smith, lui si alza, lo colpisce, torna al suo posto e, quasi in lacrime, gli urla di non pronunciare più il nome di sua moglie.

1) Will Smith non ha dato un pugno a Chris Rock, come scrivono molti giornali, gli ha dato uno schiaffo a mano aperta; 2) La moglie di Will Smith è malata da anni e non era proprio il caso di fare una battuta sulla sua alopecia; 3) Quando vivi fianco a fianco con una persona malata – che ami – e sai quanto soffre quotidianamente, ti senti male se qualcuno la ferisce ulteriormente solo per far ridere altre persone

4) Perché tu solo sai quanto profondamente e seriamente possa essersi sentita ferita mentre l’intera platea dei suoi e dei tuoi colleghi rideva di lei; 5) La violenza non ha scuse, quindi non condivido il gesto di Smith 6) Non esiste solo la violenza fisica, ma anche la violenza psicologica – e quella verbale.

La realtà è sempre complessa. Ed ha molte facce.

Io la vedo così

Centodieci e Zero.

Oggi è una giornata importante per chiunque ami i fumetti. È un incipit riduttivo, me ne rendo conto. Perché Michele Rech, autore di di Zerocalcare, è molto più di un “semplice” fumettista e la sua opera è molto più di un “semplice” fumetto.

Tanto per cominciare, da oggi Zerocalcare è una serie – di cartoni animati; da qualche mese è una raccolta di action figure (altrimenti detti pupazzetti) ed è già stato un film di discreta fattura. Poi perché da ormai dieci anni il suo autore ci regala romanzi a fumetti di rara bellezza – tanto da arrivare meritatamente tra i finalisti del Premio Strega con l’ottimo “Dimentica il mio nome”. Infine, perché questo personaggio “autobiografico di fantasia” ha raccontato con incredibile acume e integrità alcuni tra i temi più spinosi e attuali del nostro tempo – come, ad esempio, la lotta per l’indipendenza del Rojava.

Aggiungete che i suoi lavori – profondi, veri, ricchi di citazioni colte – sanno far ridere fino alle lacrime e avrete finalmente compreso la formula di tanto successo.

Per me Michele Rech, rappresenta un modello di perfezione – ovviamente nel suo ramo. Fa parte di un Olimpo popolato a gente del calibro di Assalti Frontali, Elio Germano, Erri de Luca, Stefano Bollani, David Foster Wallace, Sigmund Freud, Ludwig Wittgenstein e Francesco Totti.

Se ancora non lo conoscete, fatevi un regalo, andate in libreria e comprate uno dei suoi primi lavori – uno qualsiasi, tanto li troverete tutti. Andrete a colpo sicuro.
Sono circa dieci anni che regalo i suoi fumetti a parenti ed amici e sono diventati tutti fan come me già alla prima lettura.

Non ho ancora visto mezza puntata perché oggi avrei un esame – da studente – ma vi prometto una recensione in tempi strettissimi.

Per ora, congratulazioni e auguri, Michele.

E grazie di cuore, di tutto.

Squid Game

Tra le serie tv più viste in Italia in questo periodo spicca Squid Game, una produzione coreana (!) per la quale Netflix non ha predisposto un doppiaggio in italiano ma che ha comunque conquistato il pubblico della nostra penisola – sebbene ci abbiano costretto a guardarla in inglese, oppure, con i sottotitoli.

Vediamo insieme a cosa è dovuto questo grande successo – no spoiler.

Lo spunto da cui origina Squid Game non brilla per originalità, siamo infatti di fronte all’ennesima storia in cui i protagonisti sono impegnati in un “gioco mortale” – ne resterà solo uno, stile the hunger games, italia viva e centinaia di altre produzioni.

Il rimando ai reality show è sin troppo ovvio e banale: i giocatori di Squid Game sono come i partecipanti di Masterchef, solo che se sbagliano a cucinare un uovo arriva un naziCannavacciuolo che li stende a colpi di urla e pacche sulle spalle.

Eppure, la serie tv riesce a risultare originale per le tante “variazioni sul tema noto” che gli autori hanno saputo elaborare con una certa perizia – insomma, hanno copiato, ma hanno aggiunto allo schema di base molte cose interessanti. Per questo motivo, i coreani hanno già annunciato che il prossimo passo sarà produrre un album di Zucchero.

Aggiungete a tutto questo una certa dose di humor nero; alcune trovate di sicuro impatto visivo; il colpo di scena finale ed avrete capito per quale motivo Squid Game sta avendo tanto successo.

La serie ci spinge a riflettere su ciò che facciamo o che saremmo disposti a fare pur di diventare ricchi, criticando in maniera neanche troppo velata le sconcertanti diseguaglianze di una società in cui ci sono tantissime persone costrette a vendere gli organi pur di sopravvivere (ricordo un drammatica inchiesta de L’Internazionale) e altre che si accendono i sigari con i dollari.

Voto: 27/30.
Homo homini lupus

La vera storia di SanPa – tra luci ed ombre

Mi ricordo bene la stagione dell’eroina. Di ragazzi “sbandati”, per strada, se ne vedevano davvero tanti. Scheletrici, lo sguardo perso nel vuoto, vagavano come zombie per le città. Erano alla deriva, disposti a tutto per farsi. Quando ero bambino mi facevano paura. Al tempo stesso, catechizzato dalle infinite prediche degli adulti che mi circondavano, provavo una pena immensa per loro e per le loro famiglie.

A quei tempi la comunità di San Patrignano era considerata da molti una benedizione divina e Vincenzo Muccioli, suo carismatico fondatore, era, per larghissima parte dell’opinione pubblica, un vero eroe.

Oggi la docu-serie in onda su Netflix racconta anche il lato oscuro della comunità: le catene, i pestaggi, i suicidi e l’omicidio di Roberto Maranzano. Intervistando alcuni e rilevanti ex ospiti, il documentario mette in luce gli aspetti meno noti – e certamente meno condivisibili – del “metodo terapeutico” che utilizzava Muccioli.

Ho trovato di cattivo gusto il finale, che evito qui di citare, per il modo in cui insinua e ammicca, alludendo ad un tema parecchio delicato che avrebbe meritato altri tempi e una ben più ponderata trattazione.

Per il resto, credo che SANPA sia un ottimo resoconto di uno spaccato importante della nostra storia. Perché non si schiera apertamente con i difensori né con gli accusatori di Muccioli – dando diritto di parola anche a chi, come Red Ronnie, ha sempre difeso, in tutto e per tutto, la Comunità.

Resta la certezza che San Patrignano, in quegli anni, abbia letteralmente salvato la vita a migliaia di ragazzi, strappandoli dall’inferno della tossicodipendenza, mista alla convinzione che in quel campo siano stati fatti moltissimi passi avanti e dunque oggi abbiamo la assoluta certezza che le tossicodipendenze si possano curare senza necessariamente sconfinare nell’autoritarismo cameratesco che tanti danni ha fatto nella comunità di più grande e famosa d’Italia.

Tre Joker

La mia recensione – no spoiler

In questo capolavoro ci sono, a mio avviso, almeno tre messaggi su cui vale la pena riflettere.

1. Il L’idea che la malattia mentale sia (anche) un problema di relazione tra il singolo e l’ambiente in cui vive. Ovvero: il malato mentale non è malato “da solo”, ma è malato perché è inserito all’interno di un contesto che acuisce – o addirittura causa – il disturbo. La mente è relazionale. Il disagio psichico è interpersonale. Anche per questo motivo, il più importante manuale diagnostico dei disturbi mentali include – dal 2013 – vasti riferimenti alle diversità culturali. Come si suol dire: “io… mah, anche voi però… boh”

2. La differenza tra comprendere e giustificare. Il film ha sollevato infinite polemiche perché a qualcuno è sembrato una giustificazione della violenza criminale. Ogni volta che ci chiediamo perché un criminale abbia o non abbia agito in un certo modo, puntualmente, arrivano orde di invasati a rimproverarci di volerlo giustificare, ma le cose non stanno affatto così: se voglio capire come ho fatto a prendere l’influenza sto ricostruendo un’eziologia, non sto affermando che l’influenza non debba essere curata o – peggio ancora – che sia un bene. Provo a capire come vi salti in mente di mettere la panna nella carbonara ma questo non significa che non vi meritiate l’ergastolo ostativo solo per averlo pensato.

3. Senza padre non si vive. Il protagonista è alla ricerca del padre che non ha mai avuto. Come aveva capito benissimo Freud, abbiamo tutti bisogno di una figura paterna con la quale identificarci. Come aveva capito benissimo Brad Pitt – Fight Club -, la nostra generazione ha visto i padri fuggire – ritirarsi nel proprio mondo o scappare con altre donne. I padri hanno abdicato alla propria funzione educativa, hanno perso autorevolezza, sono entrati in profonda crisi – in crisi, più in generale, è entrato il maschile. Ma senza padre non si vive.

Questa assenza lacerante ferisce nel profondo la psiche, costringendo il bambino a rincorrere per tutta la vita un fantasma. A forza di correre manca il fiato. Qualcosa si spezza.

Il film propone questi e altri temi in maniera molto forte, con uno stile cupo – allucinato – che ipnotizza lo spettatore dalla prima a l’ultima scena, favorendone l’empatia col protagonista, la riflessione e in una certa misura la catarsi.

Voto: 30 e lode

Un lungometraggio scritto, girato e recitato come pochi. Uno di quei film che fanno bene al cinema

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