Si balla poco

La foto che vedete qui sotto l’ho scattata a marzo, ero sul piazzale antistante il pronto soccorso dell’Ospedale Sant’Eugenio di Roma, faceva un freddo cane e io stavo aspettando il risultato dei tamponi covid eseguiti su mia madre, entrata al pronto soccorso in codice rosso la notte precedente.

Da quel giorno, ogni giorno, andavo al Sant’Eugenio e aspettavo per qualche ora lì fuori – visto che nella struttura non si poteva entrare. Spesso tornavo a casa, da mio padre, con un’unica frase accartocciata in tasca assieme all’autocertiticazione, “l’infermiere ha detto che le condizioni di mamma sono stabili”.

Quando andava bene, mi consentivano di parlare con un medico, al telefono.

Mamma non aveva il covid ed è “semplicemente” passata dalla terapia intensiva alla sub-intensiva al reparto, alle dimissioni – più di una volta, in più di un ospedale.

Chiunque abbia avuto la “fortuna” di frequentare gli ospedali in quel periodo sa bene che il covid ha prodotto conseguenze nefaste su una marea di “normali malati” – sottraendo loro il personale medico e dunque le cure di cui avrebbero avuto bisogno; impedendo le visite e l’assistenza dei parenti.

Fatto sta che in quella mascherina ho parlato, mangiato, pianto e pregato per circa tre mesi.

Quando tornavo a casa, la sera, avevo i segni violacei sul volto.

Oggi, dopo aver passato, come molti italiani, un periodo letteralmente “infernale”, io devo sentire il noto dj Bob Sinclar dichiarare ai giornali: “quando si balla è impossibile mantenere il distanziamento, la regola è: goditi l’attimo”

Goditi l’attimo.

Ragazzi miei, date retta al prof: fate l’enorme sacrificio di evitare gli assembramenti, per quest’estate. Magari avrete la fortuna di andare altre mille volte in discoteca, in buona salute, nei prossimi anni.

14.8.2020

La regola è: rispettate la vostra vita e quella degli altri.

Si balla poco, in terapia intensiva.

L’adulto di cui avevi bisogno

Oggi, mentre facevo due tiri a canestro dopo “n” anni di assenza ingiustificata dai campi, mi sono tornati in mente, a valanga, tanti episodi di quando ero adolescente; in particolare, mi è tornata in mente una storia un po’ amara, ma significativa, che avevo, in qualche modo, “rimosso”.

Quando facevo il secondo anno, al liceo, la squadra della scuola cambiò allenatore – sebbene l’anno prima avessimo stravinto il torneo con gli altri licei privati di Roma. Stavo tanto bene con il primo allenatore quanto male col secondo. Ricordo che una volta andammo a giocare contro il San Paolo e lui non mi fece entrare neanche cinque minuti, il che, quando si parla di partite tra ragazzini, è davvero molto umiliante, insomma, non so come vadano le cose ora, ma ai miei tempi era ovvio che tutti avessero almeno la possibilità di scendere in campo cinque minuti e toccare la palla. Mi ricordo che alla fine mi guardò stupito e mi disse: “ah, ma tu non hai giocato?” 

Alzai le spalle e risposi che non era un problema, anche se, a dirla tutta, c’ero rimasto parecchio male. Vabbè, per protesta mi allenai con maggiore intensità nelle settimane seguenti. Comunque il coach faceva finta di non vedere. Non c’era proprio feeling. Parlava con tutti tranne che con me, correggeva o elogiava tutti tranne me, quasi non ricordava il mio nome: una volta disse a un compagno che durante l’allenamento doveva fare molta attenzione a marcare “coso” – suscitando molte e sonore risate. 

Dopo mesi di incomprensioni non mi presentai a una partita. Lui, per ripicca, non mi convocò per la seguente e io smisi semplicemente di andare agli allenamenti. 

Totale: la squadra vinse il torneo anche quell’anno e fecero una premiazione in grande stile, in palestra, davanti a tutta la scuola. In quella occasione diedero una medaglia a tutti i ragazzi che avevano in qualche modo orbitato attorno alla squadra, persino a due che avevano fatto solo le preselezioni a settembre, senza mai partecipare ad un solo allenamento. 

Insomma furono premiati tutti, tranne coso – che invece aveva fatto mesi di allenamenti e anche vinto qualche partita. Anche in quel caso evitai di protestare, non dissi nulla per non dargli soddisfazione, ma non è stata esattamente una bella giornata. 

Oggi vorrei tanto ringraziare quel coach di cui ho dimenticato il nome per avermi fatto capire come non ci si comporta da adulti, cosa non è e cosa non fa un insegnante.

Perché per quanto possa starti antipatico un ragazzo, per quanto possa essere spigoloso o indisciplinato, il tuo ruolo sarà sempre e comunque quello di prenderti cura di lui per educarlo. E non quello di giocare a braccio di ferro per vedere chi è più forte

Al mio ex coach, dovunque sia, vorrei solo dire che quel giorno non mi ha dato la medaglia, ma, suo malgrado, mi ha offerto comunque una grande lezione. 

Roma 7.8.2020

Cerca sempre di essere l’adulto di cui avresti avuto bisogno quando eri un ragazzo.