Prima di essere assunto dall’Università insegnavo chitarra moderna in una scuola di musica. Ogni lunedì, alle 14.30, entravo in una stanzetta fredda e umida posta al secondo piano di un centro culturale alla periferia sud di Roma, uscivo alle 21.30 dopo aver fatto lezione a sette allievi, con le mani che mi tremavano letteralmente per la stanchezza. Il mercoledì, il giovedì o il venerdì notte andavo a suonare nei locali con il mio quartetto jazz.
Amavo, con tutto me stesso, la musica, ma temevo di non poterci costruire una vita sopra, quello che guadagnavo bastava a malapena a pagare l’affitto e mi aiutava a mantenere viva la speranza di vincere, un giorno, un concorso come ricercatore – se mai ce ne fosse stato uno, in qualsiasi città o università italiana.
Quando serviva, quando qualcuno si ricordava di me, abbandonavo i panni del musicista, indossavo giacca e cravatta e prendevo la macchina, il treno, l’aereo per andare ovunque in Italia ad ascoltare seminari, partecipare a convegni, fare esami come cultore della materia.
“Il lavoro è una cosa naturale”, cantavano i 99posse, “c’è l’affitto da pagare e tu vai a lavorare”. Ed è davvero così.
“Lì ti possono sfruttare, umiliare, sottopagare, cassaintegrate, ma non è che ti possono ammazzare, non è così che deve andare […] Eppure non si sa come, ogni giorno succede a tre persone”
Io, nel mio lavoro, non ho mai rischiato di morire, ho visto qualche brutto incidente sull’autostrada, questo sì, ho attraversato tempeste di neve e ho pattinato allegramente sull’acqua, ok, ma credo che sia molto diverso dal salire quotidianamente su un’impalcatura, scendere tutti i giorni in miniera o calarsi in cisterne colme di materiale tossico.
Io sono stato un fortunato e un privilegiato, ho avuto una famiglia alle spalle che mi ha permesso di studiare.
A queste cose ho pensato ieri, quando ho saputo di Stefano e Paolo, due operai morti a Roma, mentre lavoravano ad un cantiere in Via di Vigna Murata – a pochi passi dalla scuola di musica dove facevo le mie lezioni di chitarra.
Ho pensato alla strage silenziosa dei lavoratori. Ai padri di famiglia, ai ragazzi alle prime armi, agli operai esperti che precipitano dalle impalcature, vengono schiacciati dai macchinari, soffocano respirando miasmi ammorbanti. In Italia ne muoiono tre, tutti i giorni. E nessuno sembra essere in grado di fare assolutamente nulla.
Ogni tanto provo a scuotere la coscienza dei miei lettori, richiamando l’attenzione sul tema.
“La colpa è loro perché non sono prudenti!” – mi scrivono nei commenti – “la colpa è degli imprenditori perché risparmiano sulle protezioni!”, “la colpa è dello Stato che non controlla!”.
Io non lo so di chi sia la colpa. Davvero. Mi piacerebbe che abbandonassimo questo spirito inquisitorio e ci concentrassimo, per una benedetta volta, sulle soluzioni piuttosto che sui colpevoli. In un Paese civile, nel XXI secolo, il lavoro uccide tre persone ogni giorno. Se ci fosse un solo partito politico in grado di prendere per una benedetta volta sul serio questo problema avrebbe certamente il mio voto.
Nel mentre, vorrei solo mandare una carezza alle famiglie e agli amici delle vittime. Vorrei che la terra, per Paolo e Stefano, fosse lieve.
Roma 22.7.2020
Povera vita mia.
Buon pomeriggio professore.
Anche questa volta ho condiviso Il suo articolo direttamente dal suo blog alla chat di whatsapp su family per i miei figli.
Ogni volta che qualcuno muore in un incidente sul lavoro penso a quella persona che è uscita di casa per andare a guadagnare di che vivere e non tornerà mai più a casa! A quella famiglia che non lo rivedrà più. Come si può perdere la vita mentre si lavora?
Mi indigno e mi sento frustrata perché non posso fare nulla perché non accada di nuovo. È la vergogna di questa società non accudire i lavoratori.
Io so che è possibile farlo: lavoro da più di 30 anni nell’amministrazione di una grande azienda che fa tutto il possibile per la sicurezza dei lavoratori.
Confido nella politica che arriverà: mio figlio è impegnato in politica, ci crede e si impegna. È un vero fuoco!
Ho finito stamattina il suo splendido libro. Letto in poco più di un giorno. Dopo aver chiuso il kobo e aver finito Ad ognuno il suo di Sciascia , ho preso dalla pila dei libri di carta da leggere in vacanza, il suo.
Si, non riesco a rinunciare alla carta!
E questo lo rileggerò subito appuntando sulla mia moleskine ,di pagina in pagina, le righe che non voglio dimenticare e che rileggerò.
Grazie per questo libro.
Come fuoriuscita dai social perché delusa dalla pochezza umana. (In realtà ho un unico profilo su Facebook)
-Si lo confesso, la penso come Davide,
Come mamma di due ragazzi
Uno iscritto alla facoltà di giurisprudenza a Padova (siamo a meno 4 esami dalla laurea) componente dell’assemblea nazionale del PD e vice segretario del piccolo circolo della nostra cittadina.
L’altra, al primo anno di medicina dopo aver frequentato un anno di biologia come ripiego per non aver superato il test di medicina la prima volta.
Come genitore che cerca di placare questo fuoco al quale è meraviglioso avvicinarsi. Consapevole di non essere tutto per loro e che non neppure corretto sapere tutto di loro.
Ecco loro sono Davide e tutti i suoi amici e amiche che sono fallibili perché sono veri. Fuoco è tutto ciò che sono.
Grazie.
"Mi piace"Piace a 1 persona