Il processo penale mediatico: una perversione della nostra società.

Come saprete, Alberto Stasi è stato condannato in via definitiva a sedici anni di reclusione per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto a Garlasco il 13 agosto 2007. La Corte di Cassazione ha dunque scritto la parola “fine” su di una vicenda processuale a dire il vero parecchio contorta. Di fatti, Stasi era stato inizialmente assolto – in primo ed in secondo grado- ma nel 2013 la Cassazione ne ha annullato la senteza di assoluzione. Richiedendo che fossero presi in considerazione un capello ed alcuni residui di DNA trovati sul corpo della vittima e mai analizzati. A prescindere dalle caratteristiche precipue della vicenda – della quale conosco solo ciò che è stato scritto sui giornali – credo che il processo Stasi possa aiutarci a riflettere sull’attuale crisi della giustizia penale e sulla discutibile industria mediatica che da essa trae linfa vitale.

Processo

“Ciak” si gira. Nell’epoca della comunicazione globale, i processi penali sono diventati estremamente “spettacolari”. La cronaca nera fa audience, colonizza interi palinsesti televisivi e, cosa ancor più importante, fa vendere i giornali. Questa ricchissima industria mediatica si mette in moto a seguito di un atroce delitto, resta attiva durante le indagini, racconta la fase istruttoria ed accompagna gli snodi fondamentali del  processo sino alla sentenza definitiva. Dopo, quella stessa vicenda che è stata così lungamente e dettagliatamente narrata dai mezzi di comunicazione di massa viene promossa ad un livello superiore e trasformata in best seller, in film, se non addirittura in una “serie” televisiva. Siamo talmente affascinati dalla cronaca  nera che alcuni delitti hanno dato vita ad un vero e proprio “filone”, conquistando milioni di lettori e di spettatori – paradigmatici, in tal senso, gli omicidi del mostro di Firenze o le gesta della Banda della Magliana.

Di certo,  il processo penale ha sempre avuto un carattere “pubblico” – per rendersene conto basterebbe leggere qualche pagina della celebre monografia  che Foucault dedicò al rapporto tra corpo e potere. Sino a non moti anni fa, i condannati venivano torturati, scuoiati, arsi vivi ed uccisi nelle pubbliche piazze del nostro continente. Affinché  il dolore e l’umiliazione del reo convincessero i cittadini che rispettare la legge fosse “opportuno”, oltre che giusto. Eppure, questa esibizione seguiva il processo – mentre oggi ne anticipa e ne accompagna  lo svolgimento. Ancora, una delle conquiste dello  Stato moderno – una delle caratteristiche fondamentali della nostra civiltà giuridica- è consistita proprio nell’aver abbandonato l’antica concezione della pena come spettacolo intimidatorio, per abbraciare, in suo luogo, una visione maggiormente rispettosa dei diritti e della dignità del condannato.

Le indagini. Se è vero che alcune trasmissioni televise nascono con il fine dichiarato di raccogliere informazioni ed aiutare le indagini, non è troppo difficile ipotizzare che questo gigantesco circo mediatico, con il suo bagaglio di indiscrezioni, ipotesi e rivelazioni esclusive, possa ostacolare  il lavoro di magistrati e forze dell’ordine,  “corrompendo” quella delicatissima fase investigativa che, precedendo il processo vero e proprio, ne influenzerà in maniera determinate lo sviluppo e la conclusione.

Il processo. Quando qualcuno afferma che i processi vengono influenzati dai mezzi di informazione,  penso sempre che si tratti di una esagerazione. Un magistrato è una persona che si confronta quotidiamente con un compito davvero arduo, ma di fondamentale importanza per la società: conciliare leggi e giustizia. Immagino che i magistrati abbiano tante preoccupazioni e tante cose per la testa. Per questo motivo,  faccio fatica a credere che ascoltino continuamente la televisione o la radio. Eppure, sono gli stessi giudici a reclamare una minore pressione mediatica – esemplare, al riguardo, il caso di Yara. Anche perché alla definizione di un giudizio concorrono molti ed importanti soggetti  -come ad esempio i  testimoni o i periti- che potrebbero non essere altrettanto immuni alla pressione mediatica. Ciò vuol dire che anche il processo, non solo le indagini, rischia di essere rovinato dal baccano di giornali e televisioni.

La pena. La pena dovrebbe essere una conseguenza, non una caratteristica, nè, tantomeno un presupposto del processo. Uno dei rischi maggiori della attuale spettacolarizzazione consiste nel fatto che gli indagati vengono giudicati – e spesso condannati- molto prima che si concluda il primo grado di giudizio. In tal modo, colpevoli ed innocenti vengono sottoposti ad una pena accessoria che il codice non prevede: la gogna mediatica.

Per tutti questi motivi, sarebbe bene che i media smettesserro di riservare una morbosa attenzione  alla cronaca nera. Ma questo accadrà molto difficilmenete, perché l’informazione è una merce ed è molto più facile che sia il mercato a “cambiare”  la legge, piuttosto che la legge il mercato.

Autore: Guido Saraceni

Professore di Filosofia del Diritto e di Informatica Giuridica, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Teramo - In viaggio.

2 pensieri riguardo “ Il processo penale mediatico: una perversione della nostra società.”

  1. La punizione, più che seguire la condanna, sembra diventata parte integrante del processo stesso. E per certi reati sembra che la condanna sia l’unico esito processuale accettato dalla società.

    Qualche mese fa mi è capitato di rileggere una vecchia canzonetta di Aldo Palazzeschi, “L’assolto”, proprio su questo argomento: mi ha dato da riflettere su come gli Italiani, nel loro insieme, affrontino e vedano le vicende processuali. Un testo che ha quasi cento anni, ma sembra scritto oggi. La si trova anche su youtube, letta da un interprete d’eccezione, Vittorio Gassman.

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